Sono figlia del ferro e del fuoco

 

 

di un fuoco che brucia e produce sangue e sudore e lacrime. Sono figlia di mio padre, un uomo vissuto nell’ombra di un vivere nascosto ma non per questo privo di quella particolare grandezza che lui era. Lui era il suo lavoro, il suo mestiere, la sua arte e da artista vivrà in eterno nelle sue opere, in ogni singolo pezzo di ferro forgiato e piegato o anche solo modellato dalle sue mani. Mio padre era un uomo con i suoi errori, con i suoi difetti, le sue testardaggini e le sue lacune, eppure con lui se ne va un pezzo di storia, se ne vanno la forgia e il martello, se ne vanno i colpi di mazza sull’incudine, cadenziati, come una musica che non mi sveglierà più al mattino presto.

 

 

 

 

“Non sarà facile scrivere di te papà, aiutami in questo compito che mi sono data affinché quello che tu sei stato non vada perso per sempre… Oggi è un mese che sei andato via, oggi è un anno che piango la tua morte annunciata. E se non parlo della tua morte non potrò parlare della tua vita, se non ti guardo attraverso il tuo passaggio non posso dire a tutti chi eri, non chi eri per me ma chi sei stato per tutti coloro che ti hanno conosciuto, che hanno avuto la fortuna di conoscerti.”

 

 

 

Dedicato a mio Padre

 

Raffaele Contili

 

 

MAESTRO DEL FERRO

 

di esempio per tutti in vita

eroe nella malattia

ha guadagnato con fede e coraggio la libertà dei figli di Dio.

 

 

MAESTRO DEL FERRO

 

 

Lui non si è mai ritenuto un maestro pur essendo consapevole del suo valore e proprio per questo lo era, un grande maestro, perché ogni giorno della sua vita ha avuto l’umiltà di dire: "ancora non ho finito di imparare il mio mestiere". Eppure dalla sua forgia, dai colpi di martello assestati con precisione uscivano fuori dalle sue mani annerite di fuliggine, oggetti che ancora trasmettono la sua passione per il ferro, una passione nata da quando ragazzino di sette anni fu mandato da mio nonno Giuseppe a imparare il cosiddetto mestiere nella bottega di un artigiano; uno dei mestieri più umili, il fabbro. Al piccolo Raffaele per tutti “Lele”, non piaceva quel mestiere ma mio nonno fu intransigente, così i suoi maestri si susseguirono: Umberto, Mariano, mastro Serangeli detto “Pennentino”, poi fu la volta di Antenore e successivamente Ercoletto, Settimio, Ottorino, tutti fabbri della zona da cui si recava a piedi facendo tre, quattro, anche sei chilometri a piedi per arrivarci. All’età di quindici anni si rese conto che il posto in cui stava non faceva per lui, così raccontava che un giorno lo mandarono a comprare dei chiodi facendogli fare tre chilometri a piedi, lui andò li comprò e per strada decise che era l’ultimo servizio che faceva per quella bottega, riportò i chiodi e si licenziò. Nel nuovo posto in cui fece l’apprendista, imparò molte cose del mestiere, al contrario che nei precedenti e quel lavoro iniziò a dargli qualche soddisfazione. Entrò quindi in una ditta dove faceva il saldatore per carpenteria pesante, capannoni vastissimi dove lavorava anche a quaranta metri dal suolo.

 

 

Conobbe mia madre durante una trebbiatura e si sposarono dopo un anno e mezzo, da quel momento una vita insieme fino a trascorrere con le lacrime agli occhi il loro cinquantesimo anniversario di matrimonio in ospedale, con la gioia di esserci arrivati soverchiata dal  terrore della fine, poco prima che papà ci lasciasse per sempre.

Una vita dedicata al ferro, un odio e amore per questo metallo che gli ha dato da vivere, che ci ha dato da vivere anche se quando ero piccola, convivevo con gli stenti di una miseria cocente e reale, quanto il fatto che non c’erano soldi per comprarmi abiti e dovevo indossare quelli smessi della figlia di una signora benestante.

 

 

Mio padre è sempre stato una persona indecifrabile, da bambina lo adoravo, era il mio idolo, ma lo sentivo così lontano e così lontano è stato fino a un anno fa, intoccabile. Una distanza fatta di quel riserbo e di quella rigida educazione dove nascondere un sentimento significava disciplina. Non ricordo di aver mai avuto da lui una carezza o una dimostrazione di affetto, ne che mai mi abbia presa sulle sue ginocchia; c’era solo il rituale del bacetto sulla guancia che mi porgeva sul portone di casa dopo pranzo, mentre usciva per ritornare al lavoro, un lavoro duro, faticoso, povero.

 

 

 

Lo ricordo sempre perennemente vestito di blu, come il baschetto che gli scendeva a metà fronte, sia i pantaloni che il giubbino avvitato che mia madre gli cuciva e in seguito rammendava di notte, alla fioca luce della corrente bassa allora chiamata 125. Vivevamo in una casa vecchia, scalcinata, mi vergognavo di abitare li, dei pochi mobili impiallacciati di bianco e rosso. A scuola soffrii molto di questo mio stato fino alle elementari, vedevo i genitori degli altri ragazzini sempre ben vestiti che facevano lavori meno umili di quello di mio padre e temevo sempre che venissero a sapere cosa faceva il mio papà  o che lo vedessero. Ma un giorno, lo ricordo come fosse ora, qualcuno bussò nell’aula di seconda classe ed entrò mio padre, cercava il maestro Remo per questioni di lavoro, diventai piccola piccola nel mio banco quasi volessi scomparire. Era vestito come sempre, gli abiti sporchi e le mani annerite dalla polvere del ferro, il grembiule di cuoio ripiegato di lato, trattenuto dal braccio, guardò verso di me mentre parlava e fece un sorriso furbo, nei suoi occhi colsi un lampo di sfida e orgoglio, da quel momento, qualcosa successe dentro di me, quell’espressione mi piacque talmente tanto che fui fiera di lui, non un attimo prima di quel sorriso ma proprio in quell’istante la mia piccola mente si aprì a qualcosa di grande. Dicevo fui fiera di lui, del suo lavoro, del fatto che era diverso dagli altri genitori perché si distingueva, e già da allora seppi che l’importante per me sarebbe stato distinguersi fra la massa, anche se con le toppe e le mani e il viso neri di fuliggine.

 

 

 

«El ferro se batte quann’ è callo

e nun è tanto al botta che lo piega ma comme jela dai»

 

 

 

“Il ferro” diceva “si scalda col fuoco  e si batte quando è caldo, e non è solo  il colpo del martello che lo piega ma la passione che  imprimi nel colpo.”

 

 

 

 

Mio padre aveva un'altra passione, la caccia, che io odiavo perché amo troppo gli animali, ma adoravo i suoi fucili, le sue armi che lucidava e puliva con cura, direi quasi amore. A volte invidiavo le canne brunite di quella doppietta Beretta calibro 16, avrei voluto per me quelle carezze. Nel mio DNA si è trasfusa da lui la passione per le armi, avevo undici anni che mi imbracciò il fucile e mi fece tirare il grilletto, la mia prima “schioppettata”… la ricordo ancora, il rimbombo nelle orecchie, il rinculo del calcio sulla piccola spalla che lui ovviamente teneva per impedire che mi potessi fare male e il bersaglio appeso a un vecchio tronco secco che centrai al primo colpo. Il suo sorriso di soddisfazione; degna figlia di suo padre!

 

 

“Ma el tempo curre e nun se ferma

porta via tutto

e te lascia dentro li stracci vecchi e l’occhj ciechi

che nun sanno più guardà e mammanco piagne.”

 

 

 

Di esempio per tutti in vita

 

 

Il suo esempio è una vita di coerenza, fosse pure nell’errore  mio padre è stato coerente a se stesso e alle sue idee, a quello che riteneva giusto, e gli errori si ne ha fatti, ne stava per fare uno immenso con me ma si è fermato in tempo comprendendo seppure a due anni di distanza che non avrebbe agito giustamente.

 

 

 

Di mio padre mai una bestemmia, di mio padre mai un giorno di vacanza, tutta una vita di lavoro e sacrificio per costruirsi una casa, per vivere decentemente e infine per curarsi, e avere una dignitosa dimora dopo il trapasso. Mio padre era la sicurezza, la sua sola presenza era la certezza che comunque fossero andate le cose tutto si sarebbe risolto in un modo o in un altro. Il suo immancabile consiglio era in grado di risolvere tutte le cose, a volte una parola anche brusca definiva la situazione e apriva la strada a possibili soluzioni. Lui era così  a volte vedeva nella semplicità le soluzioni più impensate eppure efficaci.

   Lampadario per la chiesa del convento dei Cappuccini - Amelia

 

Tutto nella mia casa mi parla di lui, dalle torce appese alle pareti, alle poltrone in ferro e cuoio, al letto realizzati su mio particolare disegno. E le nostre discussioni animate, gridate, per stabilire chi di noi due avesse ragione, io volevo il mio disegno fatto realtà, lui a volte non voleva seguire il mio disegno… che battaglie per trovare il compromesso! ma arrivava sempre alla fine e ciò che ne usciva era la perfezione. Mentre lui forgiava i miei lavori, io lo guardavo affascinata come da bambina e ogni colpo di martello era un emozione che non so spiegare, nelle scintille del ferro diventato bianco sentivo pulsare l’arte, la magia della vita che si plasmava tra le sue mani esperte.

 

 

 

 

   

 

 

 

 

 

 

 

 

Ho visto piangere mio padre una sola volta in tutti i miei anni,  le ormai fragili spalle scosse dai singhiozzi per la paura che mamma, portata da mio fratello al pronto soccorso per un aritmia, fosse rimasta ricoverata al reparto cardiologia, invece era  sulle scale esterne che saliva con un po’ di fatica. in quel momento ho colto il loro legame. Fin da bambina ho sempre pensato che mamma mi avrebbe lasciata per prima, sempre piena di acciacchi e dolori, invece dieci anni fa papà senza un minimo di preavviso dovette operarsi di un tumore al polmone, infiltrante la pleura. Nessun sintomo, scoperto per caso mentre si stavano facendo le ricerche per un altro tumore anche questo asintomatico  e scoperto per caso  da un analisi di controllo sballata, comune tra gli uomini, quello della prostata. Così lo stesso giorno scoprimmo che aveva ben due primari. La mia anima si contorce ora, perché sto per entrare in quello che segnò  l’inizio delle sofferenze di mio padre, il periodo in cui lui mi dimostrò e dimostrò al mondo quale fosse la sua tempra, il suo spirito e il controllo che aveva sul suo corpo e sulla sua mente. Io non sono davvero degna di allacciargli le scarpe, eppure sono sua figlia, nel mio sangue il suo DNA grida che esiste ancora qualcosa di lui che vive

 

 

 

 

Eroe nella malattia

 

 

Lo è stato dall’inizio alla fine, non l’ha mai nascosta  ne si è vergognato di mostrarsi  soprattutto nei tempi dell’ultimo anno, quando il linfoma insorto improvviso lo devastava, accettando con piacere le visite che  amici e parenti, le sorelle e il fratello gli facevano, ricordando più di ogni altro Graziano Bettelli  per il conforto spirituale di ogni domenica  e Maurizio Bettelli, farmacista del nostro paese del quale diceva meravigliandosi con immenso piacere non si sarebbe mai aspettato un simile attaccamento e costanza nelle visite in ospedale e di Francesco de Marzio che considerava il suo unico  amico. In verità l’unico che in quel momento di estremo bisogno aprì il suo portafoglio e voltandosi mi disse: “prendi quello che ti serve per tuo padre”, un gesto che non dimenticherò mai e che nessuno ha mai fatto per noi.

 

 

 

 

 

 

Avevamo pochi giorni per decidere era luglio 2002 dopo l’intervento al polmone, decidemmo di seguire una terapia alternativa, la Multiterapia Di Bella. Ricordo ancora con il fascino  pieno di trepidazione la visita in via Marianini, dove l’energia del grande Professore pervadeva ogni cosa, noi compresi che restammo nello studio per due ore, tanto durò la visita di papà. Mai un malessere mai una recidiva mai nulla fino giugno 2010 in cui  dall’analisi di controllo vedemmo le piastrine che colavano a picco. E in quegli anni di battaglia contro il male, ancora fuoco, ancora carbone, ancora ferro…

 

 

 

 

Stava succedendo qualcosa di terribile lo sentivo in ogni fibra di me stessa. Biopsia del midollo: linfoma non hodking mantellare 4° stadio, midollo infiltrato al 95%. Un altro tumore primario, la fine, uno dei linfomi peggiori, arrivato a quello stadio senza nessun sintomo particolare fino a fine luglio, poi stanchezza difficoltà respiratorie e milza triplicata di misura. Essendo un tumore intervenuto in corso di MDB, la stessa non aveva alcuna chance per eliminarlo, o quanto meno tenerlo a bada, tentammo di trasfondere sangue ma ebbe reazioni allergiche importanti e dopo la seconda trasfusione non si alzava più dal letto. A fine settembre scrisse con tantissimo sforzo il testamento. Lo rivedo ancora chino sul foglio la mano tremante ma la mente vigile, lo stesso giorno mi mandò al cimitero col muratore per terminare i lavori della cappella; ed io col pianto strozzato nella gola cercavo di fare quello che lui voleva sapendo che non lo avrebbe chiesto ad altri che a me e che non avrebbe voluto altri che me per sbrigare tali compiti.  Ammiravo la sua composta sofferenza, quel suo non voler dare fastidio a nessuno, e  io sbrigate quelle incombenze tornavo a casa e mi sdraiavo accanto a lui nel letto poggiando la testa sul cuscino… “Papà come stai? Preghiamo la Madonnina papà” Madonna a cui lui aveva dedicato una piccola edicola votiva in giardino, e pregare era diventato un esercizio continuo per esorcizzare il terrore della morte.

 

 

 

 

Poi riuscii a momenti ad esorcizzarla in un modo che non avrei mai creduto possibile  e fu solo grazie a una persona che fu messa sulla mia strada per percorrere quel tragitto, e nonostante questa non abbia compreso minimamente il valore di restare in  rapporti affettuosi proprio per la conoscenza avvenuta in  tale delicato frangente, auspicando sempre in un ravvedimento,  resterà comunque legata in maniera indissolubile al ricordo di papà.  

 

 

 

 

 

 

 

Ho parlato di tutto con mio padre, il momento del pranzo era a casa mia un momento di parole e di discussioni,  la cucina il fulcro della casa e del dibattito animato, che vi si svolgeva per qualsiasi questione, a voce alta, a volte gridando senza litigare. Sorrido al ricordo delle prime volte in cui  qualcuno esterno alla famiglia ci si trovava in mezzo… la parola a casa mia era libera, ogni problema o pensiero veniva espresso a voce alta e commentato,  non c’erano segreti che non potessi confidare a mio padre soprattutto in questo ultimo anno in cui il nostro rapporto era cambiato e diventato così stretto, fatto di attimi che rubavo al tempo per poterlo toccare su una spalla o dargli una carezza di sfuggita sul collo o su una caviglia con la scusa di controllare se c’era gonfiore. E’ come se io avessi avuto mio padre solo da giugno di un anno fa… un anno poi il nulla.

 

 

 

 

 

 

La mattina del nove ottobre papà chiamò noi figli e mio marito dicendo “figli miei sto tanto male”, a mio fratello disse “stai attento a Gabriele che è ancora tanto piccolo e ricordati tutto quello che ti ho insegnato, da ora in avanti comportati bene” a mio marito disse "Passa più tempo con lei” a me promise di guardarmi dal cielo dopo avermi detto di pensare per la mamma. Ero disperata, stava morendo vedevo il sangue sgorgare, ma lui  rassegnato e pronto, impavido aspettava, stava di certo per avere un emorragia interna  ed ero terrorizzata da questo; lo pregai ancora in ginocchio, ai piedi del letto di farsi portare in ospedale che io non lo avrei mai lasciato solo, nemmeno un minuto e  forse ebbe pietà di me che piangevo terrorizzata che potesse morire in modo tragico soffocato dal sangue senza più piastrine e disse:“e va bene portatemi all’ospedale si tratterà solo di soffrire qualche altro giorno.”

 

 

Da quel momento in poi, ogni giorno è stato un giorno strappato alla morte; nei pochi mesi che si sono susseguiti a quel momento non l’ho mai lasciato solo, non ho mai permesso che si sentisse abbandonato da me e quel legame che sotterraneo ci univa si è rinsaldato a tal punto da creare qualcosa che va oltre il rapporto da  padre a figlia, divenendo quello da madre a figlio, per il bisogno che lui aveva di me della mia presenza, delle mie cure. I mesi interi trascorsi in ospedale e quando le analisi mostravano una ripresa del midollo  ci fu  l’insorgere di forti dolori ed emorragie vescicali e le febbri improvvise per  le infezioni urinarie dovute alla chemioterapia... e altro sangue e altra sofferenza e paura  e un'altra biopsia e un altro terribile tumore, stavolta alla vescica;  ci dissero con ogni probabilità causato dalla chemioterapia, il 4° primario altamente cancerogeno e invasivo. Fu questo tumore, che tentarono di bloccare cauterizzando il tessuto  emorragico infiltrato con la radioterapia, a viaggiare velocissimo fino a spegnerlo in poche settimane.

 

 

 

 

 

 

Ogni iniezione è stata fatta da me dove serviva, ormai senza paura di nulla abbiamo affrontato ogni prova, ed io ammiravo la sua potenza emotiva, la sua forza interiore, quel suo esserci e voler vivere finché fosse stato possibile. 

Ma non è solo qui l’esempio di mio padre, non è nella voglia di vivere ogni giorno che Dio gli aveva concesso oltre a quelli vissuti  fino al nove ottobre, la sua grandezza sta nell’aver accettato quello stato di sofferenza ringraziando Dio sempre. Facile per me dirlo, ma per lui, sapendo che andava incontro alla morte, sapendo che andava incontro al dolore, sorridere e pensare al futuro, a poter ancora battere il ferro su quell’incudine dove il dipanarsi delle martellate costituiva il canto dei miei risvegli mattutini di 46 anni.

Sto tergiversando con me stessa, lo so,  perché affrontare quello che venne poi è una piaga che fa ancora troppo male e la mente vorrebbe tornare a quei ricordi felici che serbo dentro di me con un calore filiale.

 

 

 

Ha guadagnato con fede e coraggio la libertà dei figli di Dio

 

 

 

La sua capacità di sorridere mi fa urlare dentro, la sua capacità di sorridere a me, questo suo ultimo sorriso che è stampato dentro di me come un marchio a fuoco, la sua capacità di fare progetti a tre giorni dalla fine… “cambio l’auto quando torno a casa se mi rimettono in piedi...” e quando dopo qualche giorno comprese che non avrebbe lasciato l’ospedale, la sua coerenza a rimettersi nelle mani di Dio cercando solo di contenere la paura, per andarsene con coerenza a se stesso e dignità.

                                                                                                             

                                           

Ha vissuto gli ultimi giorni cercando di guardare in faccia all’attimo del trapasso con il coraggio di un leone, un impavido cuore di leone ferito ma consapevole di aver fatto tutto il possibile in questa vita per tutti e per se stesso. Il coraggio di affrontare le ultime terapie devastanti, quando il male era ormai fuori controllo e invadeva ogni organo cercando di dare coraggio a me che lo assistevo. Gli attimi che colgo ora sono brillanti momenti di gloria di un prato verdissimo dove il grano spuntava folto e vivace e noi tornavamo verso casa, dall’ospedale dove ogni lunedì lo portavo per le analisi di controllo o la terapia o la trasfusione, a seconda di ciò che serviva.

 

Lui guardava il grano verde e diceva: “pensavo di non vederlo mai più”e sorrideva e io respiravo di più l’odore del suo dopobarba per imprimerlo nella memoria per non dimenticarlo mai;

 

 

 

 

 

 

 

 

e i videomessaggi che si scambiavano con Gabriele, il nostro nipotino di otto anni, troppo intimi e toccanti, come il ricordo di mio padre seduto sul letto di ospedale che prendeva tra le mani il mio cellulare, emozionandosi e rispondendogli di slancio come se il piccino fosse stato li tra le sue braccia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Altri attimi hanno il sapore della bile invece, amari, e lasciano un retrogusto metallico in fondo alla lingua, l’ultima volta che gli feci la barba volteggiando in una sforzata allegria intorno al suo letto, armata di  occhiali e rasoio  e quel nodo in gola  quando passavo la lametta nelle tumefazioni rigonfie sotto l’orecchio col suo, va tranquilla non fa male… e il saluto con la voce rotta dal pianto, sulla porta della stanza di ospedale,  rivisitato dalla memoria come a fotogrammi tanto è rallentato, la mano poggiata sul muro come a non volermi staccare da quel luogo prima di andare per poche ore a casa e perdere quelle ore, quelle sue ultime ore di vita:

 

"Ti voglio bene papà"

"e fin'adesso nun te n'eri accorta?”

quel suo replicare immediato col tono di sempre come  se fossimo a pranzo e lui dovesse scendere a lavorare in officina.

 

 

...e poi far terminare a mio fratello il suo ultimo lavoro per me, un candelabro a 4 braccia tutto in ferro battuto del quale erano pronti i pezzi forgiati dalle sue mani da prima che le forze lo abbandonassero e poi rimasti  dimenticati in una scatola.

Mio fratello accese la forgia la mattina presto e a mezzogiorno il lavoro era terminato, io lo presi e lo portai con me in ospedale affinché potesse vederlo  e ammirare la sua opera compiuta.

Il suo sorriso soddisfatto nel vedere la sua ultima creatura. tutto era compiuto, questo dicevano i suoi occhi, poteva andare sereno. Mi girai che non potesse vedermi il viso devastato dal pianto. Io Custode dell’ultima volontà, i vestiti da indossare per il suo ultimo viaggio, "me ne andrò come sono sempre vissuto" poi la frase sulla lapide che io cercavo di scrivere mentre lui agonizzava ma era ancora vigile, aveva ancora la forza di sorridere.

Ci vorrebbe un poeta” mi disse a voce bassa, trafelata quasi ed io risposi “papà mi fai un torto”  e la frase fu scritta e fu approvata dal suo caro amico cappuccino e padre spitrituale padre Alberto, per lui era come avere l’Imprimatur che quella frase non fosse stata troppo per lui o offensiva per la Chiesa che rispettava e amava. 

 

 

 

Dopo la visita del frate arrivò Maurizio Bettelli per l'ultimo saluto, come poter dimenticare...

Papà non parlava quasi più, la fatica di respirare era immensa guardava verso il cielo le immagini di un paradiso che  io forse non incontrerò. Alle cinque del pomeriggio del suo ultimo giorno  mi guardò e disse: “voglio dormire… basta” e quel basta racchiudeva tutto, io sapevo cosa mi chiedeva, morfina per non svegliarsi più. Chiamai il medico ma questo  gli diede solo dieci gocce di una benzodiazepina, i protocolli infernali, la morfina deprime la respirazione. Maledissi in cuor mio il sistema e le regole imposte. Si addormentò per un ora stremato e quando riaprì gli occhi il suo sguardo di terrore mi trapassò l’anima, vi lessi  il terrore di essere ancora vivo, ed io avevo nei miei  l’amarezza e la rabbia di non aver potuto mantenere la mia promessa a far si che  non si fosse più svegliato. Credevo di impazzire a vederlo soffrire così per respirare, ma dovevo lasciarlo per poche ore  per andare a prendere le mie medicine, gli dissi:

 “papà aspettami... aspettami...” 

lui fece si col capo. Non sarebbe mai andato senza che io fossi tornata lo sapevo. Lasciai mio fratello con lui e mi avviai verso casa che mi aspettava come sempre ma stavolta non era più il caro rifugio dalla tempesta, sapevo che lui non l'avrebbe più rivista, era questione di ore ormai.

 

...segna col rumore della tua bottega,

ormai solo nel sonno prima dell'aurora

come di ogni mio risveglio fino a che sei stato,

i giorni che verranno...

 

Sento lo stomaco serrato in una morsa come  quella notte durante il mio infilare la chiave nella toppa del  portone di casa sua all’una, abbracciare mia madre consapevole della busta pronta vicino alla poltrona con i vestiti di papà dentro, da lei stessa ben piegati e stirati pronti per l'ultimo viaggio. Dirle: "vado" e giungere come in un film dell’orrore al quinto piano di un ospedale silenzioso da sembrare deserto, entrare e vedere dal corridoio solo la luce sopra il suo letto accesa, le sue gambe scivolate di lato al letto e lui che nel tentativo disperato di cercare aria si era strappato l’ ossigeno ed io mi rivedo correre verso di lui e abbracciarlo sostenendolo “eccomi  papà, ci penso io, sono arrivata, ora ti faccio dormire papà te lo prometto” e lui  mi ha guardata illuminandosi  sollevato fugacemente dalle mie parole dalla mia presenza,  facendo cenno di si col capo e lasciando andare il respiro rassicurato ora che sapeva io ero li, sapeva conoscendomi che avrei fatto fuoco e fiamme, che non mi sarei fatta giocare una seconda volta, che avrei  buttato anche dalla finestra il medico o che ci sarei saltata io stessa, per fargli dare la dose di morfina. Lui sapeva che stavolta  avrei mantenuto la mia promessa con ogni mezzo, che le sofferenze erano finite. Iniziai a gridare minacciando uno scandalo e il medico di guardia arrivò con due infermiere e con la morfina già nella siringa. Papà dopo poco si calmò dormendo del sonno della medicina.

Dai miei occhi sgorgavano lacrime come fili d’acqua da una sorgente e cadevano sul lenzuolo e sul suo corpo, che rinfrescavo con un asciugamano bagnato per togliere il velo di sudore della morte, tanto diverso dal sudore che si tergeva lavorando  davanti a quella fiamma di carbone che bruciava e scaldava e forgiava creature  vive di passione, tentando di dargli una parvenza di sollievo che ormai non sentiva più. Mi sembrava che quel corpo fosse come quello di Cristo  nella sua agonia, percepivo gli altri ammalati della camera dormire come nulla fosse, mio fratello steso sulla coperta per terra vicino al letto, dormiva anche lui di un sonno egoistico, quasi a voler dimenticare o non vedere quello che stava succedendo a nostro padre.

Mio marito che piangeva fuori dalla porta nel corridoio, senza aver la forza di varcare la soglia della camera.  

Passata quell’ora, seduta vicino al capezzale vedevo il suo volto farsi sempre più pallido, era giorno ormai ed ero rimasta sola, lo guardavo, non poteva più restare,  non poteva restare ancora, ebbi paura che si svegliasse, ebbi paura che non si sentisse libero di andare perché il mio immenso amore lo tratteneva; così pregai l’ultima Avemaria per lui da vivo, violentando tutto l’amore che egoisticamente  avrebbe voluto soffocare quelle mie parole per trattenerlo ancora un solo attimo in questa vita, e gli sussurrai all’orecchio: “vai papà… vai sereno, vai papà dalla  tua Madonnina… è Lei che ti viene incontro…”

 

 

 

 

Il suo ultimo respiro mi sorprese innaturale, come la natura è il respiro, il non respiro sembra spezzare la natura che è movimento nell’innaturale immobilità della morte. Alle otto e dieci di quel mattino di domenica 15 maggio 2011, papà smise di respirare.

Lo guardai esalare l’ultima aria dai polmoni e restai aggrappata alla sua mano calda come se dormisse.  Era libero, libero dal corpo, dalla sofferenza, dalla malattia.

La sua mano un tempo forte, dalla presa salda ed efficace, abbandonata tra le mie, quanto ferro aveva stretto quella mano!

Il ferro era stato la sua vita, lui stesso era il ferro che rigido e forte si plasma al calore del fuoco e della passione. Compresi quale regalo mi avesse fatto, solo io e lui in un'intimità assoluta per vivere quel momento. Io e mio padre, nessun altro. Il suo ultimo regalo.

 

  ...stretta compagna della tua lunga trincea

ultima luce ch'han visto i tuoi occhi

ultima voce che t'ha detto t'amo.

 

In Chiesa lo attendevano i suoi tre amici che tanto lo avevano confortato durante la malattia: padre Alberto, don Mario e don Piero, come da sua espressa volontà per la celebrazione funebre e nessuno dimenticherà la voce  del suo caro amico scrittore Francesco de Marzio, che ha speso per lui queste stupende parole in terra consacrata:

 

 

Io non conosco magiche formule consolatorie per alleviare il dolore per la scomparsa di Lele , non le conosco altrimenti le sarai andate persino a rubare per regalarle ad Anna, Paola e Renzo e a tutti voi che gli volevate bene e anche a me che lo avevo conosciuto per caso e diventato amico per scelta di entrambi.

Ricordare Raffaele Contili a voi che lo conoscevate da più tempo e meglio di me sarebbe un atto di presunzione che Lele stesso non mi perdonerebbe e cosi in questo giorno di dolore, che egoisticamente vorrei fosse arrivato il più tardi possibile, posso solo dirvi quello che Lele era per me e perché mi mancherà. Durante quel tempo troppo breve della nostra conoscenza, Lele mi ha fatto il grande onore di regalarmi la sua amicizia e dal momento che la perdita di un amico è anche una insopportabile perdita di noi stessi, oggi con lui scompare una parte di me; lo dico senza la retorica delle solite frasi di circostanza che si usano in queste occasioni ma con la triste consapevolezza che non vedrò più quegli occhi sorridenti nascosti dalla fuliggine e dal cappello troppo calato sulla fronte e quella tuta blu ogni giorno un po’ più larga, non vedrò più Lele muoversi nella sua bottega dove, tra il colore delle scintille e li battere del martello, riusciva a trasformare una materia informe in qualcosa di utile e bello con una meticolosa attenzione a insignificanti particolari che lui si soffermava a spiegare con pazienza alla mia curiosa ignoranza cittadina.

Mi mancherà ascoltarlo mentre raccontava le tante storie degli anni lontani di una volta, dove i valori erano semplici ed essenziali ma tanto forti quanto veri, tempi in cui le difficoltà facevano buona compagnia ai sacrifici, tempi che lui allora aveva attraversato da protagonista e ora ne era rimasto il testimone, accettando sempre con un sorriso, un alzata di spalle e un immancabile borbottio il duro vivere quotidiano. Lele aveva l'orgoglio di sentirsi uno dei tanti e non la presunzione di essere diverso dagli altri ed ai miei occhi era invece proprio questa sua schiva umiltà a renderlo diverso e speciale; Lele non diceva mai io ho fatto o quello che io facevo bensì il mio lavoro era, oppure debbo fare questo lavoro.

Lele non conosceva l’io. Il lavoro e la sua famiglia sono stati la sua vita e mi parlava quasi se ne vergognasse di quel tredici agosto dello scorso anno quando si era dovuto arrendere alle forze che gli erano venute a mancare , quel giorno quando dopo anni di lotta contro un male che aveva affrontato a viso aperto si era dovuto fermare.

Mi mancheranno quelle discussioni intorno al tavolo della cucina di casa sua mentre mi guardava con soddisfazione mangiare la spalla di maiale con il pane del forno e bere quel vino così scuro, mi mancherà quel parlare dei fatti di ogni giorno che commentava con il buon senso che è la caratteristica delle persone intelligenti che però non considerano il proprio punto di vista un dogma irreversibile ma accettano anche un diverso parere. Erano poche le cose su cui non ci trovavamo d'accordo però ce le ricordavamo e ce le rinfacciavamo a vicenda sorridendoci su perché tra amici, tra veri amici, si usa così.

Mi mancherà la sua signorilità , la sua riservatezza, la sua confidenza, i suoi consigli e mi mancheranno le tante altre piccole grandi cose che con generosità mi hai regalato e che per sempre se ne vanno via con lui.

Tra molto tempo, se il molto sarà sufficiente, quando ai giorni del dolore di oggi, giorni apparentemente interminabili che si trascinano vivendo nell'assenza di una persona cara, si sostituiranno i giorni della dolcezza del ricordo forse riuscirò a raccontare in maniera più completa del mio amico Lele, di quel uomo che non ha  conosciuto il tormento del dubbio ma la semplicità della fede, di quella fede che ho ammirato e che gli ha fatto accettare la sofferenza della fine con rassegnazione ma soprattutto con dignità.

Tra molto tempo quando alla tristezza del tramonto seguirà il sorriso dell'alba, riuscirò forse a raccontare quel suo intimo dialogare con Dio senza chiedere non per orgoglio ma come mi diceva per non disturbare chi ha tanto da fare.

Durante la sua malattia quando vedeva il mio sguardo preoccupato quasi volesse rassicurarmi diceva socchiudendo gli occhi e tagliando l’aria con la mano con quel suo tipico gesto " sarà quello che Dio vorrà".

 

Ciao Lele mi mancherai

 

 

 

"fai ringhiere di nuvole papà

ora che le tue mani sono d'anima e vento"

 

 

 

Le mie parole invece restano ancora strozzate in gola dopo un anno e mezzo da quel giorno, tranne nel chiamarlo spesso come a cercare la sua presenza nel vuoto incolmabile e nel silenzio privo di quei rumori familiari e vivi, che comunicavano la sua cara esistenza  e di notte dire nel buio quel: "Papà mi vedi?" e nel silenzio sentire le lacrime scivolare silenziose ai lati degli occhi.